Circa un mese fa si è conclusa la VI Edizione del Festival e adesso abbiamo deciso di prenderci cura di tutta la meraviglia generata da quei tre giorni attraverso dei brevi reportage dei laboratori. Il Festival non è solo un evento annuale, ma è anche il punto di incontro delle relazioni che tengono vivi i nostri progetti e le noste comunità. Iniziamo con HumanLab tenutosi l’8 ottobre.
Riguardarci significa almeno tre cose:
- uno sguardo “aumentato” sulle cose del mondo in cui siamo immersi (guardarci di nuovo e con una attenzione maggiore)
- un insieme di esperienze che ci interessa (qual è l’oggetto dell’attenzione)
- ciò che pertiene l’io in quanto noi (qual è il soggetto, l’intenzione)
Qui abitano, a nostro parere, alcune importanti ispirazioni filosofiche che possono guidarci per disegnare il futuro a partire dal presente magmatico che abitiamo, per trasformare le comunità locali in consapevoli presidi di innovazione sociale ed economica rispetto ai modelli geografici dominanti di costruzione della ricchezza e del valore.
Nel prefisso ri– troviamo la profondità della fenomenologia e del posizionamento non frontale del suo pensiero rispetto all’oggetto, che si fa sempre più processo, sempre più vissuto e sempre meno dato, sapere matematico nel senso etimologico del “già saputo”. Il pensiero è il percorso di consapevolezza con cui l’io si riconosce nell’altro, ricostruendo la molteplicità dei punti di vista da cui una stessa cosa può essere sentita e poi descritta. Nel prefisso ri, troviamo la dialettica incessante del mondo di cui facciamo esperienza, ovvero la realtà come complessità e meraviglia.
Nel suffisso –ci, abita la rivoluzione della cura con cui si definisce l’ontologia stessa dell’essere, nell’analitica esistenziale. La nostra qualità prima, la proprietà con cui abitiamo il mondo, è la relazione con cui accediamo agli altri. Nel suffisso ci, troviamo la realtà come relazione e cura.
Un pensiero incarnato che ci apre all’inatteso, perchè l’altro con cui conviviamo non è solo l’altra persona da me, ovvero intersoggettività, ma anche inter-temporalità, inattualità che si traduce in apertura verso il nuovo, curiosa attitudine a intercettare i cambiamenti generati dal flusso degli eventi intuiti, vissuti e, col giusto equipaggiamento, anche anticipati.
Il laboratorio HumanLab a Nicotera
A Nicotera, durante il Festival dell’ospitalità, nel laboratorio HumanLab ci siamo chiesti che cos’è che ci riguarda, come persone e comunità. Un esercizio di luce che guarda tra le crepe della realtà.
E lo abbiamo fatto assumendo l’identità (di un territorio, di un soggetto, di un sapere) da presupposto (proposizione e figura di legami immobili della realtà) a funzione rigenerativa.
Ciò che siamo, ciò che racconta una comunità di sé e del suo territorio, non è solo un’affermazione ma una combinazione di spazi bianchi, di riappropriazioni che a seconda di come vengono osservati, di come decidiamo di connetterli cambiano la loro narrazione, il loro senso. E’ il lettore che sceglie l’interpretazione e la costola con cui tenere insieme le pagine di quella storia che gli scorre tra le esperienze.
La domanda con cui volevamo camminare a braccetto non aveva a che fare in maniera prioritaria col cosa avremmo prodotto, ma come lo avremmo fatto.
Come generiamo relazioni virtuose tra le persone che abitano un territorio e il patrimonio culturale materiale e immateriale? Come realizziamo processi di apprendimento reciproco tra l’ospite di un territorio e la sua comunità locale? Come tutto questo diventa modello per esplorare, deliberare e programmare un progetto di benessere per il paesaggio umano a cui interessa, riguarda quell’intenzione di sviluppo, da scalare e replicare sui territori degli innovatori presenti al Festival?
Nella rappresentazione della Calabria (nella foto), sono stati visualizzati 4 livelli di connessioni: nei punti 1) le provenienze dei partecipanti, 2) i luoghi in cui lavorano 3) i luoghi della Calabria che intendono visitare; nei colori, l’organizzazione dei partecipanti per scenari di progettazione
In sintesi, le finalità metodologiche della prima giornata del Festival progettata col metodo HumanLab, erano:
- dotarci di una grammatica comune con cui pensare a un nuovo racconto del territorio;
- fare esperienza di un alfabeto – di servizi e emozioni – radicato nell’immaginario collettivo della comunità locale;
- con gruppi di lavoro multidisciplinari, presupporre in maniera circolare come punto di (ri)partenza e arrivo il miglioramento della qualità della vita delle persone – residenti e temporanee – su quel territorio.
Il modo con cui guardiamo al mondo non è neutro, ma si porta con sé una serie di funzioni etiche, di giudizi, di opportunità custodite tra la riflessione sul capitale culturale e l’organizzazione dei benefici per le persone con-per cui lavoriamo.
Come ricostruiamo la realtà e quali possibilità diamo a quella realtà? Come la prossimità diventa prossimo, ovvero come la vicinanza emotiva a un luogo diventa vettore di futuro?
Una delle principali ispirazioni di HumanLab con cui il Festival dell’ospitalità ha voluto quest’anno impostare la prima giornata di incontri e formazione risiede qui: la progettazione di esperienze innovative di fruizione e racconto di una destinazione territoriale – traccia di lavoro di questo modulo del festival – non può prescindere dal coinvolgimento delle persone che rappresentano l’anima, la geografia più autentica di quel territorio su cui decidiamo di progettare, ovvero la comunità locale.
Il Festival dell’Ospitalità è stato tra le ultime fasi di un processo avviato con la scuola di Nicotera quasi un anno fa, in cui due classi hanno intervistato genitori e nonni su un set di domande predisposto affinché potessimo leggere non solo tre fasce generazionali ma anche rappresentare come la memoria e il desiderio del futuro definiscono gli abiti di quella comunità.
I gruppi di progettazione in cui i partecipanti del Festival si sono aggregati, prima di avventurarsi sulla via facilitata degli strumenti e delle azioni da realizzare, hanno perciò appreso simboli, ricordi, risorse percepite, immaginazione del futuro, intenzioni da parte di bambini, adulti e anziani di Nicotera.
La progettazione si è svolta organizzando 5 gruppi di lavoro associati a 5 scenari di valorizzazione del patrimonio culturale:
- itinerari naturalistici;
- itinerari nel centro storico;
- percorso enogastronomico;
- piazze aperti/anfiteatri/piazze;
- museo privato/collezione/manufatti.
Dopo aver rappresentato le matrici dei dati raccolti con le scuole e le famiglie, analizzati per età e consistenze su un’onda con gli indicatori di senso mappati, abbiamo chiesto ai progettisti del Festival di combinare e reinventare quelle carte in cui si mostrano alcune delle possibilità della comunità.
Nel kit di co-design a disposizione dei gruppi, oltre al canvas e alle istruzioni, alle indicazioni sugli obiettivi dell’agenda 2030, c’erano i punti da valorizzare, i benefici da generare, i gruppi della comunità di Nicotera da intercettare, le motivazioni per cui ritornare, i significati associati allo sviluppo territoriale, gli input utopistici con cui confrontarsi per costruire lo storytelling dell’esperienza progettata (“se sparisse il denaro, come daremmo valore alle cose che facciamo e come scambieremmo questo valore?”).
I gruppi di progettazione, mentre pensavano a come costruire un percorso di esplorazione del territorio, trasformavano i punti mappati nella prima fase in direzioni, discutendo delle coordinate, di quali costellazioni disegnare con quelle risorse tra le mani, quali possibilità di incontro tra viaggiatori e residenti, tra fuori sede e nomadi digitali, tra generazioni e pubbliche amministrazioni. Nuove tecnologie e segmenti di pubblici che dialogano con i trasformatori di gelsomini, i cestai, l’argilla, un vecchio cinema nella piazza del borgo, i profumi officinali e le montagne intorno al mare.
Il processo di co-design per uno dei gruppi, si è concretizzato per esempio in “Sostanza”, un’idea che valorizza le essenze botaniche del territorio attraverso la creazione di profumi, bevande e anche esperienze di raccolta, ricerca, conoscenza del territorio, tutte sfumature del prodotto da commercializzare con cui innovare la fruizione e il racconto del luogo di progettazione.
Un altro gruppo, ha lavorato alla strutturazione di un cammino che tra beacon e contest fotografici da una parte rendesse fruibili e in open data i punti di interesse del territorio, dall’altra aggregasse gli attori dell’economia primaria, spesso ai margini delle filiere ufficiali, attraverso la rigenerazione di vecchi casali accessibili proponendo Esperienze intorno alla produzione e ai temi del consumo critico.
Dagli input ordinati in indicatori valoriali della comunità locale, una serie di output che nelle giornate di co-progettazione HumanLab nel Festival ne hanno elevato le potenzialità.
Il processo è finalizzato a creare e consolidare – nei borghi come nelle aziende e nei luoghi della cultura- un’architettura di valore fatta innanzitutto di raccordi tra diversi gruppi di coinvolgimento sul territorio sia locale che comprensoriale, cerniere che dal margine, dalle divergenze si mettono a discutere su come e perché migliorare il contenuto.
Il modello e la strategia di sviluppo progettati nella prima giornata del Festival sarebbero emersi proprio bilanciando i fabbisogni (di servizi, di consapevolezza, di notorietà della destinazione) con le risorse – inclusi i ricordi del saper fare delle botteghe che non ci sono più, quelli legati alla costa, ma anche le vocazioni lavorative di ogni partecipante che proveniva da diverse province della Calabria, e poi Friuli Venezia Giulia, Roma, Perugia, Cuneo – per farne emergere figure attrattive all’esterno ma innanzitutto all’interno.
Il metodo HumanLab si fonda in questo principio: sono le vocazioni dei territori, mappati in un processo comune di ascolto e visualizzazione, che diventano nuovi strumenti di progettazione. Nuova linfa per le radici.
La ricchezza risiede nell’infinitamente piccolo e non ci può essere progresso senza la condivisione di quei livelli del sapere con le persone che imparano a prendersi cura delle cose di cui riconoscono il valore. Non ci può essere sviluppo senza l’apprendimento collettivo con cui distribuiamo le informazioni e condividiamo il tragitto dall’alveare ai fiori, come in una danza delle api.
Una visione di sostenibilità, autenticità e ospitalità che diventa processo – e deve esserlo soprattutto nell’epoca digitale degli dèi-dati – e perciò entropia per i territori.
Giusy Giovinazzo